PESCA ASSASSINA?

21 giugno 2022 - Ambiente - Commento -

Testo di Giampaolo Buonfiglio Presidente AGCI Agrital/ Alleanza Cooperative Italiane / foto copyright Agci Agrital 



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L’immaginario collettivo degli italiani oscilla sempre di più tra due estremi: da una parte la diffusa coscienza ambientalista tende a considerare la pesca come la principale, se non l’unica, responsabile dello stato di sofferenza in cui versano la maggior parte degli stock ittici oggetto di valutazione; dall’altra una considerazione più benevola emergente soprattutto nel periodo estivo-balneare, durante il quale la frequentazione di porti e porticcioli e soprattutto di ristoranti e pescherie , rende l’italiano medio un cultore di fritture e zuppe di pesce, che a quel punto può anche essere acquistato senza stare a guardare se è sotto taglia minima.

Ma schizofrenie a parte quello che domina la scena, nel grande circo dell’opinione pubblica, è l’assoluta generale ignoranza su cosa sia veramente la pesca professionale, quali siano le caratteristiche dei diversi mestieri, i diversi impatti, gli aspetti sociali ed economici collegati, e soprattutto di cosa si stia facendo o non facendo da anni nella Politica Comune della Pesca dell’Unione Europea ed in quella nazionale.

Di fatto la pesca è, e rimane, la più facile su cui intervenire tra tutte le attività umane che hanno un impatto sul mare, la più regolamentata, monitorata, sorvegliata e sanzionata, certamente più di tante fonti di inquinamento: dalle industrie all’agricoltura, dalle attività di estrazione in mare ai trasporti, dalla produzione di energia agli scarichi urbani. Tutte attività ed economie che coesistono e confliggono sul mare per l’occupazione degli spazi e che subiscono l’una gli impatti dell’altra, ma tra le quali la pesca è più raggiungibile e visibile.


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Ed è cosi che si concentrano sulla pesca poderose campagne di sensibilizzazione a grande effetto mediatico – in cui spesso si confondono dati mondiali e mediterranei - iniziative parlamentari (a Roma e a Bruxelles), consultazioni pubbliche o raccolta di firme per proibire o bandire questo o quello. 

Rara eccezione: il referendum per fermare le trivellazioni in mare, miseramente fallito per mancanza di quorum. 

Si continua a parlare solo di catture eccessive mentre i cambiamenti climatici avanzano ed incidono sull’intero ecosistema di un Mediterraneo sempre più tropicalizzato, mentre le microplastiche sono sempre più invasive e mentre si predica - ma non si pratica – l’adozione di approccio eco sistemico nelle valutazioni degli stock ittici che consideri tutte le variabili della complessità dell’ambiente marino.

So già quello che sta pensando una parte di voi che legge queste righe: ecco che si punta il dito su altro per difendere la pesca e mantenerne lo status quo. 

Ebbene chi pensa questo si sbaglia. 

Chi scrive lavora da più di 30 anni nella pesca ed è fermamente convinto della necessità di cambiare al più presto, come dicono i biologi, gli “exploitation patterns” dei diversi mestieri, renderli più selettivi per taglie e specie e meno impattanti sull’ambiente ma è anche convinto della necessità di farlo cercando di mantenere in piedi tutti e tre gli assi su cui poggia la sostenibilità: quello economico e quello sociale insieme a quello ambientale.


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Stiamo pur sempre parlando di un settore di 12.000 imbarcazioni e di 25.000 imbarcati, oltre all’indotto, che devono essere trattati con rispetto e considerazione come tutti i lavoratori di qualsiasi altro settore. 

Su questa considerazione paritaria dei tre assi della sostenibilità, nonostante pagine e pagine di documenti e fiumi di dichiarazioni, casca però spesso l’asino, tirato da una parte e dall’altra tra chi si impegna solo nella difesa sindacale del settore e chi lo vorrebbe demolire per fare del mare nostrum un acquario, spostando solo più in là i problemi ambientali di chi pescando in mari esotici rifornirebbe comunque i nostri mercati.

Ma per parlare seriamente di questi problemi, e sul da farsi per risolverli, occorre innanzitutto conoscere la situazione, essere informati e documentati, coscienti dei vari squilibri e dei processi in atto e di cosa è successo nell’ultimo mezzo secolo nella pesca italiana ed europea. 

In altri termini conoscere e capire la complessità su cui si intende intervenire per raggiungere la piena sostenibilità delle attività di pesca su cui si basa la vita di moltissime comunità costiere del nostro Paese, parte della nostra alimentazione, e che costituisce un patrimonio storico e culturale che in Paesi a maggiore vocazione marittima è custodito e valorizzato.


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Conoscere significa innanzitutto essere capaci di distinguere ed entrare nello specifico dei diversi sistemi di cattura compresi nel termine “pesca”. 

Come in agricoltura sono mondi lontani tra loro quelli dell’ortofrutta dal lattiero-caseario, o dell’oleo-olivicolo dal viti-vinicolo, così nella pesca devono essere distinti il sistema della piccola pesca (reti da posta, palangari, nasse, etc.) lo strascico, le volanti e circuizioni per i piccoli pelagici (pesce azzurro), le draghe idrauliche, i rastrelli da natante, il comparto tonniero (volanti, palangari e tonnare fisse). 

Sono tutti sistemi diversi tra loro, per tecnica, impatto, selettività, economia, tipologia di imprese, mercato, numero di addetti imbarcati e a terra. 

Ognuno di questi sistemi richiede una trattazione separata anche perché ognuno di loro ha una specifica normativa di riferimento sviluppata negli anni. 

 Se si vogliono affrontare seriamente i problemi della pesca occorre effettuare un viaggio che attraversi tutte queste diverse realtà ed entri nel merito, senza pregiudizi, slogan o facili parole d’ordine. Io cercherò di accompagnarvi in questo viaggio su queste pagine, nella speranza che chi ama il mare voglia conoscere anche cosa vi accade veramente e quale sia il destino della gente che vive delle sue risorse.


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