Per salvare il pianeta dobbiamo preservare i mari

20 novembre 2021 - Ambiente - Commento -

Testo e illustrazione di Marta Bello, foto di Marta Bello e (C) LAV

La COP26, cioè la conferenza internazionale degli stati sulla crisi climatica organizzata dalle Nazioni Unite, si pone l’obiettivo di arrivare ad un accordo e ad un piano d’azione condiviso per affrontare  la crisi climatica che sta già dando evidenti segni della sua devastazione. L’obiettivo è quello di mantenere il surriscaldamento del Pianeta al di sotto dell’aumento di 1.5°C. 

La conclusione dell’intera conferenza è stata fallimentare perché gli accordi tra stati sono non vincolanti e gli obiettivi prefissati sono rimasti gli stessi degli accordi di Parigi del 2020. 


Da allora, ben poco è cambiato e ben poco continuerà a cambiare. 

Poniamo all’occhio delle lettrici e dei lettori un primo gravissimo fattore: ci sono stati dei “Grandi assenti”: gli animali non umani. 

Nella narrazione del nostro secolo, anche quando parliamo di cambiamento climatico, la retorica ci vuole unici protagonisti e unici abitanti del pianeta, ricordiamoci però, che a livello di biomassa siamo solo lo 0,01% degli abitanti del pianeta, ma soprattutto che ci sono più animali negli allevamenti intensivi che umani sulla terra: il 60% dei mammiferi terrestri è rinchiuso negli allevamenti intensivi, gli animali umani sono il 36% e i mammiferi selvatici solo il 4%. 

Pare che dobbiamo impegnarci a contrastare questa crisi solo in nome della salvezza della nostra specie, quando i fattori inquinanti sono solamente entropici (causati dall’umano) e mettono a rischio tantissime specie.

Un’azione interessante è stata fatta da LAV, una delle pochissime associazioni che si è interessata all’assenza degli animali non umani con cui abitiamo la Terra. Una Terra della quale ci sentiamo padroni.

Ho incontrato LAV e gli ho chiesto cosa ne pensassero.

Prima, però, credo sia opportuna una premessa: con l'intenzione di fare informazione e sensibilizzare sulle tematiche ambientali, con il desiderio di riportare al centro dell'attenzione l'ambiente marino, dobbiamo constatare che la carenza di informazioni è ampia.

La necessità di partire dal mare per conservare il pianeta sembra non essere evidente, e ancor meno pare esserlo la conservazione degli habitat marini di per sé con i loro equilibri. La difficoltà nel trovare dati è un dato di fatto, la nostra sensazione è che, in generale, ci sia una scarsa comprensione dell'importanza e della centralità dei mari.

Siamo animali terrestri, ma non è un buon motivo per vivere solo sulla terra e dimenticarsi del mondo sommerso. Probabilmente è necessaria una rieducazione al mare, affinché possa rientrare a far parte del nostro contesto culturale, d'interazione reciproca e sociale. La distanza che si è venuta a creare tra mare e terra è sempre più abissale, siamo distanti da tutto ciò che non è sotto i nostri occhi.

Forse un buon modo per istaurare un legame con il mare è proprio quello di andare a scoprirne le meraviglie immergendosi in esso, scoprirlo, conoscerlo e trascorrere del tempo in esso ammirandone i colori e le immagini.

La parzialità della nostra esistenza può essere un nuovo punto di partenza.

Nel mentre, LAV mi ha raccontato della frammentarietà ed inutilità dei nuovi accordi internazionali sul clima.


Mi descrivereste cos’è LAV e perché avete sentito l’urgenza e la necessità di organizzare un FlashMob a Milano durante la Pre-Cop26?


LAV si batte per liberazione animale, l’affermazione dei diritti degli animali non umani e la loro protezione, la lotta alla zoomafia e la difesa dell’ambiente.

 Abbiamo sentito l’urgenza di essere presenti con una dimostrazione evocativa alla Pre-COP26 di Milano per sottolineare l’assenza ingiustificata degli allevamenti dal dibattito sul clima. 

L’evidenza scientifica non lascia più spazio all’interpretazione: una quota molto importante di emissioni climalteranti proviene dall’agricoltura,  le stime vanno dal 16 ad oltre il 20% (arrivando quindi a rappresentare circa un quarto delle emissioni a livello globale). 

Di queste, il 70% dipende dalla zootecnia. 

Escludere questo tema dal dibattito significa scegliere deliberatamente di omettere un tassello fondamentale, in favore di uno  status quo che garantisce gli interessi di pochi a scapito della collettività.

Abbiamo voluto portare le  voci degli animali, sfruttati e confinati in strutture ben lontane dalla vista e dall’udito delle persone,     per fare risuonare la loro presenza, riportarla a portata di tutte e tutti, e dare una forma molto chiara anche      alla loro sofferenza nascosta dietro muri di cemento e sbarre di metallo. 

Le fabbriche di animali sono  ovunque, ben celate, e nascondono milioni di animali in condizioni inaccettabili. Questi numeri hanno anche un enorme impatto sull’ambiente e, appunto, sul clima.


Se è evidente che il consumo di carne e gli allevamenti intensivi in cui questa viene prodotta sia in          testa al cambiamento climatico e ai danni ambientali, perché non se ne parla a livello mediatico?


Cambiare le abitudini delle persone è difficile, cambiare le abitudini alimentari delle persone ancora di più.

Nessun politico ad oggi si è preso l’onere, e l’onore, di assumere un approccio di questo tipo. 

Si iniziano a vedere azioni dirette a questo solo nei tempi recenti, per esempio in Olanda il governo  sta valutando di ridurre del 30% il numero di bovini e polli nel Paese per diminuire le emissioni di ammoniaca, precursore del particolato che troviamo nell’aria. Anche per quanto riguarda le emissioni di gas climalteranti, senza un drastico ridimensionamento del settore zootecnico non è pensabile raggiungere alcun obiettivo sul clima.


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Quali sono le vostre richieste/le vostre ipotesi risolutive? Pensate possa essere possibile una                  svolta green?


La nostra posizione è che una transizione ecologica, che preservi l’ambiente e metta un freno al cambiamento climatico, non potrà avvenire senza un drastico cambiamento nel sistema agroalimentare.

In altre parole, se consumi non cambiano e a sua volta la produzione, orientandosi      sempre più verso proteine di origine vegetale, non è pensabile parlare di svolta green. 

La popolazione mondiale sta aumentando, e se i consumi non cambiano, nel 2050 sarà necessario aumentare del 70% la produzione di proteine vegetali. 

Le risorse della Terra sono scarse, esauribili,       ed in declino. 

Non è ragionevole aspettarsi di poter continuare a consumare ai ritmi attuali senza incorrere in catastrofi ambientali e di conseguenza sociali, dal momento che la crisi climatica e la distruzione dell’ambiente hanno conseguenze dirette ed indirette sulla vita delle persone e di intere          comunità. 

Non è pensabile portare avanti un modello distruttivo pensando che non ne dovremo pagare le conseguenze.

La nostra richiesta è quella di favorire la transizione alimentare togliendo risorse dal settore della zootecnia favorendo la riconversione produttiva e la diffusione di cibi di origine vegetale. Le nostre richieste specifiche al caso italiano sono due: l’istituzione di un fondo per  la transizione alimentare che disincentivi la zootecnia e la riforma dell’IVA in favore di cibi di origine  vegetale.


Credete che una conversione totalmente vegetale sia sostenibile?


Ogni cambiamento drastico presenta dei costi e degli aggiustamenti. 

Non è pensabile ottenere un cambiamento senza aggiustare in un modo o in un altro i propri comportamenti. Anche il cambiamento dei consumi alimentari, e conseguentemente della produzione (o viceversa) richiede   sforzo. Se ben architettato, sostenuto con le ingenti risorse oggi destinate al mantenimento del sistema, sarebbe un grande passo avanti nella sostenibilità. 

Anzi, se vogliamo essere precisi, è il sistema attuale che non è sostenibile, non solo per l’ambiente e per il clima, per gli animali, ma anche economicamente.

Un sistema che assorbe oltre il 30% del budget dell’Unione Europea per rimanere vitale non appare come un sistema sostenibile. 

I prezzi delle carni, del latte e dei prodotti  derivati dagli animali, spinti al ribasso dalla sovrapproduzione e dalla concorrenza tra distribuzioni, mettono in ginocchio quegli stessi attori del mercato che difendono questo assetto. Un circolo vizioso che assorbe una quantità spropositata di risorse finanziarie creando a sua volta danni ambientali e sanitari, le cosiddette esternalità, che sono quantificabili in termini monetari. 

Solo nel contesto italiano, si parla di circa 37 miliardi.

(per approfondire si rimanda alla ricerca sui costi nascosti della carne in Italia).


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Sto facendo delle ricerche in questi ambiti da un po’ di tempo, e non riesco a capacitarmi dell’indifferenza e dell’inconsapevolezza che abbraccia le persone. Oltre a rapporti di forza e di potere, ci sono anche grossi interessi economici dietro. Me ne parlereste? E poi, quale può essere una direzione economica percorribile da questi nuovi accordi?


Così come altri aspetti di vita quotidiana, anche la scelta alimentare è profondamente radicata nella  cosiddetta tradizione e nelle abitudini delle persone, per questo motivo è argomento divisivo e difficile. 

Si tratta di un discorso identitario, molte persone faticano a vedere in modo positivo il cambiamento in generale, e quindi anche il cambiamento alimentare. 

Gli interessi poi che si nascondono dietro al mantenimento dello status quo sono sia di carattere sociale, vedi sopra, che prettamente economico. 

Per esempio, in Europa la Politica Agricola Comune elargisce centinaia di miliardi di sussidi proprio al settore della zootecnia. Si tratta di uno strumento molto complesso che è stato istituito da decenni ed ha cercato di adattarsi all’evoluzione del mondo e delle necessità. Purtroppo, però, non è riuscito, finora, a farsi traino di una rivoluzione verde sempre più urgente, per esempio finanziando riconversioni produttive e la necessaria transizione alimentare verso una dieta a base vegetale. La lobby dell’agrifood è molto forte a Bruxelles, proprio in rappresentanza di       quegli interessi di settore che rappresentano lo status quo.

La nostra rivista ha molto a cuore il mare e gli oceani, posso chiedervi secondo voi per quale motivo quando si parla di allevamenti intensivi, ci riferiamo solo a quelli di terra senza considerare l’acquacoltura e la pesca intensiva? Eppure, si equivalgono in modo analogo. 

Pur se ancora non soddisfacente, c’è una nota positiva: negli ultimi tempi il tema dell’acquacoltura   e della distruzione causata dalla pesca sta entrando maggiormente nel dibattito. È vero che c’è una   minore attenzione forse dovuta al fatto che la sofferenza degli animali ed i danni causati all’ecosistema sono meno direttamente visibili, essendo noi abitanti terrestri. 

Le implicazioni però in termini di numeri di individui uccisi, di distruzione della biodiversità, e di conseguenze sull’ambiente sono drammatiche. 


Secondo voi, qual è il rapporto tra la responsabilità individuale e la responsabilità collettiva? 


Si tratta senz’altro di un rapporto molto stretto, senza una delle due il risultato non può che essere        parziale.

La responsabilità collettiva però, che potremmo declinare come responsabilità delle istituzioni, ha un ruolo di traino innegabile. Il singolo cittadino/consumatore non può fare la differenza se non c’è un disegno più grande che sostenga ed amplifichi gli effetti delle scelte individuali. Ciascuno ha una responsabilità che non può ignorare, ma sarebbe scorretto ed inefficace  demandare unicamente ai singoli la responsabilità di cambiare la situazione in modo strutturale. 

In  altre parole, ogni persona ha sue difficoltà ed abilità, ed è quindi importante che ci sia un contesto favorevole al cambiamento, che lo supporti ed agevoli.


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Vi ringrazio. 

Abbiamo alcune osservazioni da fare: La narrazione del nostro secolo si muove all’interno della cornice narrativa dell’Antropocene: cioè quella che viene definita “L’epoca umana” in cui vige un fortissimo antropocentrismo, è il tempo dell’entropia, in cui l’essere umano è stato in grado di modificare strutturalmente (quindi in modo stratificato e difficilmente reversibile) la natura e il clima. 

In questa cornice narrativa, gli animali non umani trovano difficilmente posto, ma dobbiamo ammettere anche una gerarchizzazione dello specismo, ove per specismo intendiamo una convinzione secondo la quale la specie umana è superiore in capacità, intelligenza e modalità di sentire rispetto a tutte le altre, le quali possono essere sottomesse al dominio umano senza alcun tipo di obbligazione morale.

Oggettivamente, però, possiamo riscontrare una gerarchizzazione nel senso che, sul piano del senso comune, i mammiferi sono potenzialmente più degni di compassione, i cuccioli di animale non umano maggiormente consumati come l’agnello, possono essere evitati. Ed infatti è stato registrato un forte calo del consumo della carne d’agnello per pasqua perché è cucciolo, viene strappato dalla madre ed è assolutamente evidente la sua sofferenza. 

Ma quando questa sofferenza non è evidente cosa succede? 

Succede che la stratificazione verticale degli animali più o meno degni di essere risparmiati dalla tavola si stabilizza e in fondo ad essa troviamo i pesci e tutti gli abitanti del nostro caro mondo marino. Questo perché la sofferenza dei pesci non è evidente, sono lontani dai nostri occhi ed evolutivamente distanti. Riprendiamo, a tal proposito, uno studio di Peter Singer, fondatore del “Movimento di liberazione animale”, dall’omonimo testo (e manifesto) del 1975:

“I rettili e i pesci hanno sistemi nervosi che differiscono da quelli dei mammiferi sotto alcuni importanti aspetti, ma condividono con essi la fondamentale struttura di vie nervose organizzate a livello centrale. Essi manifestano inoltre gran parte dei sintomi di dolore che si riscontrano nei mammiferi. Nella maggioranza delle specie è inoltre presente anche una vocalizzazione, benché non percepibile dalle nostre orecchie. I pesci, per esempio, producono dei suoni vibratori, tra i quali i ricercatori hanno identificato diversi richiami e segnali indicanti “allarme” e “acutizzazione del pericolo. I pesci inoltre mostrano segni di sofferenza quando vengono tolti dall’acqua e lasciati a guizzare in una rete o sul terreno finché non muoiono.” 

Secondo la nostra visione antropocentrica, i pesci non soffrono perché non emettono gemiti; in verità lo fanno, soltanto che noi non possiamo sentirli. 

Nel 1976 l’inglese “Royal Society for the Prevention of Cruelty to Animals” istituì una commissione indipendente d’inchiesta sulla caccia e sulla pesca presieduta dal noto zoologo Lord Medway e vari esperti. La conclusione della loro inchiesta fu “Le prove che testimoniano la presenza del dolore nei pesci sono decisive quanto le prove della presenza del dolore in altri animali vertebrati.”

L’allevamento ittico, che consente di trasportare i pesci dal loro habitat -cioè il mare- al nostro piatto, è una forma di allevamento industriale tanto intensiva quanto la produzione di carne di manzo ed è in rapida espansione. Pare, tra l'altro, che la morte dei pesci sia anche più dolorosa di quella dei polli perché i pesci pescati industrialmente (ed è l’unico modo per soddisfare la richiesta di mercato) muoiono solo in due modi: per soffocamento o per decompressione. 

“Le branchie dei pesci possono estrarre l’ossigeno dall’acqua ma non dall’aria, fuori dall’acqua i pesci non possono respirare e la morte per soffocamento è lunga e dolorosa. Se invece parliamo di pesci d’alto mare, questi vengono trascinati in superficie dalla rete a strascico di un motopeschereccio, può essersi trattato di una dolorosa morte per decompressione.” 

Ricordiamoci anche che negli ultimi anni il ricavato della pesca è diminuito in modo esorbitante, diverse specie una volta abbondanti, come “le aringhe dell’Europa del nord, le sardine della California e l’eglefino del New England sono ora così scarse da potersi considerare estinte dal punto di vista commerciale”.

Questo succede e succederà così con ogni nuova specie che desidereremo avere nei nostri piatti perché la domanda di mercato di un pianeta costituito da quasi 8 miliardi di abitanti umani è sostenibile solo a livello industriale, la cui pesca ha un tipo di impatto ambientale tale per cui gli equilibri dell’ecosistema marino vengono inevitabilmente alterati e perturbati. Ogni specie ancora esistente influisce e contribuisce a mantenere gli equilibri dell’habitat di appartenenza e ha diritto a non ricevere l’interferenza umana. 


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Stiamo esaurendo i mari, “le specie prive di valore commerciale sono note in gergo come -spazzatura-, possono arrivare a costituire la metà del contenuto delle reti e i loro corpi vengono ributtati in mare.” 

“La pesca a strascico è altamente responsabile dello spreco di combustibili fossili, poiché spreca più energia di quanta ne produca.” 

Oltre al danneggiamento di ecosistemi che sino ad allora erano indisturbati, abbiamo anche un problema di distribuzione di ricchezze derivato dal capitalismo, come conseguenza dell’assenza di ogni necessità di mangiarli affiancata da un’azione che invece li vede spesso protagonisti dei pasti.

Mangiare gli animali si inserisce in una catena causale che provoca la distruzione dei nostri meravigliosi mari, ma non solo.

“In tutto il mondo, i piccoli villaggi costieri che vivono di pesca, vedono infatti esaurirsi le loro tradizionali fonti di cibo e di guadagno. Dalle comunità della costa occidentale dell’Irlanda ai villaggi di pescatori birmani e malesiani. L’industria della pesca dei paesi sviluppati è diventata un’ennesima forma di redistribuzione a favore dei ricchi.”  (P. Singer, "Liberazione Animale", 1975).

Come ci ha spiegato anche LAV, sono proprio questi interessi economici che spingono al consumo di pesce attraverso propaganda di basso rango: “Abbiamo bisogno dell’Omega3 presente nei pesci”, “Le proteine nobili del pesce sono indispensabili”. In verità una dieta vegetale al 100% è completamente sostenibile e anche più salutare di una onnivora da qualsiasi essere umano di qualsiasi età. 

Per preservare la nostra salute, ogni specie e tutto il pianeta, meglio lasciare la sofferenza fuori dai nostri piatti e goderci la meravigliosa natura marina con la quale conviviamo. 

Siamo tutti abitanti di questo meraviglioso pianeta, conserviamolo invece di mangiarlo e distruggerlo.


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