La Terra brucia e il mare s'innalza

12 ottobre 2021 - Ambiente - Commento -

Testo e illustrazione di Marta Bello, foto di Marina Banfi

Un racconto da Firenze: la potenza politica dei corpi in strada che urlano contro il mondo che si scioglie.


Il 24 settembre scorso le strade del centro di Firenze sono state occupate da corpi dissidenti, giovani che hanno deciso di usare gli spazi di piazze e strade come luogo di manifestazione: ad un tempo una protesta e una festa.

“La festa della fine del mondo”, così è stata nominata.

Perché questo momento storico è cruciale? Ce lo racconta il “Fridays for future” di Firenze, il gruppo fiorentino del movimento globale che richiede giustizia climatica.

Ci dicono, tra i vari cori, che stiamo scendendo in piazza perché siamo in prossimità della COP26, la conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite che si svolgerà a Glasgow dopo 5 anni dagli accordi di Parigi, preceduta dalla Pre-Cop dal 30 settembre al 2 ottobre a Milano. La Pre-COP riunisce i ministri del clima e dell’energia di un gruppo selezionato di Paesi per discutere di alcuni aspetti politici fondamentali dei negoziati tra stati sul cambiamento climatico e di definire i temi chiave che saranno affrontati alla COP26.

L’accordo di Parigi è stato stipulato nel dicembre del 2015, quando 195 paesi hanno concordato il primo piano d’azione universale per contrastare il cambiamento climatico. L’accordo pone come limite l’aumento del riscaldamento globale ben al di sotto di 2°C annui, con sforzi fino all’abbassamento della soglia a 1,5°C tollerabili in più rispetto alla temperatura media del mondo in età preindustriale. Dichiara, inoltre, la necessità della riduzione delle emissioni di CO2 entro il 2050 con la richiesta di raggiungere il minor tasso possibile di emissioni il più presto possibile.


La seconda parte dell’accordo è volta all’aspetto economico e ha il proposito di sostenere finanziamenti in uscita dai paesi avanzati a beneficio dei paesi non industrializzati e fondi a beneficio di altri paesi con danni climatici già permanenti o irreversibili.

È ormai chiaro che a causa del mancato controllo dell’impatto ambientale per lunghi secoli, a partire dal periodo post-industriale, vi siano danni ormai irreversibili a cui solo una politica d’accordo interstatale nell’epoca della globalizzazione (forse) può dare risultati importanti.


È necessaria una cooperazione globale in cui nessuno stato può rifiutare la propria responsabilità etica verso il pianeta e tutte le specie che vi abitano.


L’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), un organismo scientifico che studia e fornisce le prove e gli studi sul cambiamento climatico agli organi di governo nel 2001 ha stilato il Third Assessment Report, ovvero la prima, autorevole e completa analisi su ciò che sta avvenendo al nostro pianeta.

Da ciò è emerso che le nazioni più povere, le quali subiscono gli effetti delle emissioni dei paesi più industrializzati sono il catino in cui confluiscono le conseguenze della deresponsabilizzazione, o ancor peggio, del disinteresse infra e transnazionale della crisi del nostro tempo.



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Ad esempio il Bangladesh, il più densamente popolato tra i grandi paesi del pianeta, include il più esteso sistema mondiale di Delta e distese fangose, la maggior parte della sua gente vive del settore agricolo, ma se il livello del mare continuerà a salire, molti contadini non avranno più terra. Tali cambiamenti implicano anche il coinvolgimento dannoso della biodiversità causando l’estinzione di larga parte delle specie animali e vegetali.


La catena di cause ed effetti s’intreccia in modo complesso: mentre il livello del mare si alza, questo s’infiltra al di sotto delle calotte polari e ne causa un ulteriore e più rapido scioglimento, la fusione dei ghiacciai trova i due principali epicentri in Antartide e in Groenlandia. (P. Singer “One World. L’etica della globalizzazione”, Torino, Einaudi 2003).

I dati scientifici sono molto preoccupanti: il tasso d’innalzamento del livello del mare è passato da circa 2,3 - 2,5 mm negli anni ’90 sino ad un aumento di 3,4 - 3,8 mm all’anno.



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Negli studi scientifici dell’IPCC sono state prese in considerazione due condizioni: una in cui le emissioni di CO2 saranno contenute e conseguentemente avremo un aumento della temperatura globale inferiore ai 2 gradi e un aumento del livello dei mari di minimo 29 cm entro il 2100.

Nel caso in cui le emissioni non vengano ridotte, si parla invece di un aumento del livello dei mari di ben 1 mt.

La soglia dei 2 gradi è particolarmente significativa poiché è una vera e propria “soglia critica”: “Rispetto all’era preindustriale, viene considerato come il punto oltre al quale vi è un rischio di gran lunga maggiore che si verifichino mutamenti ambientali pericolosi e potenzialmente catastrofici a livello mondiale. Per questo motivo, la comunità internazionale ha riconosciuto la necessità di mantenere il riscaldamento al di sotto di questi valori.


La situazione è però cambiata e i rischi sono sempre più gravi, infatti con la COP26 il paradigma di riferimento è mutato: la soglia critica è scesa a 1,5. Non possiamo andare oltre un aumento della temperatura globale, e le emissioni nette devono essere azzerate entro il 2050.


I principali fattori inquinanti sono tutti di natura entropica:


-L’emissione di CO2, metano, ossido di azoto e i gas fluorati. La CO2 è un gas serra prodotto soprattutto dall’attività umana ed è responsabile del 63% del riscaldamento globale.

I gas fluorati causano un potente effetto serra fino a 23.000 volte più elevato di quello causato dalla CO2, ma per fortuna le emissioni sono nettamente minori.


- Fertilizzanti azotati

- Deforestazione (gli alberi aiutano a regolare il clima assorbendo CO2 dall’atmosfera)

- Allevamenti intensivi di bestiame e pesca industriale

(https://ec.europa.eu/clima/change/causes_it)


L’ultimo fattore è di meritevole attenzione: è la causa principale del cambiamento climatico e al contempo la più in sordina.

Può essere difficile da accettare per una questione di tradizioni, abitudini e concezioni strutturate all’interno della società, ma la pesca ecosostenibile non esiste, come l’allevamento a terra non è sostenibile per le risorse del pianeta.

La pesca intensiva mette in grave pericolo tutte le specie marine, anche quelle non direttamente pescate, che finiscono nelle reti e sono tonnellate di materiale di scarto. Tonnellate di creature marine viventi necessarie al mantenimento dell’equilibrio e dell’ecosistema marino e dell’intero pianeta.


La “Lega anti vivisezione” (LAV) è stata l’unica voce a farsi sentire con il flash mob a Milano “Voci Inascoltate” con il quale ha denunciato socialmente la grande e grave assenza del tema dell’allevamento intensivo di animali dalla COP 26.

È un segnale di una società che forse ancora non è pronta (con un po’ di ottimismo potremmo dire che semplicemente crede di non esserlo) a mettere avanti al profitto economico e all’egoismo la vita di altri individui.


Gli allevamenti intensivi di terra e la pesca intensiva si sostengono e aumentano perché la domanda del consumo di carne aumenta anziché diminuire. La FAO (Food and Agricolture Organization of the United Nations) dichiara che il 19% del totale delle emissioni di gas serra provengono dagli allevamenti industriali, mentre il danno totale dell’inquinamento di tutti i mezzi di trasporto globali raggiunge solo il 16%.

I danni che causa alla deforestazione sono inauditi: la principale causa dell’abbattimento di alberi è la necessità di coltivare foraggio destinato agli animali da macello, nonché per la costruzione di ampissimi allevamenti intensivi. Un terzo delle terre emerse viene impiegato per mangimi ed allevamenti. (Jonathan Safran Foer, Se niente importa, 2009.).


Perché tutto questo è preoccupante? La FAO mostra le prove della necessità di diminuzione, o ancor meglio, della cessazione dell’alimentazione a base di carne, ma anche di uova e latte, mentre la curva della domanda di mercato è in aumento.

Abbiamo anche la questione demografica della sovrappopolazione: secondo le stime ISTAT a fine secolo saremo 10-12 milioni di abitanti, per questo è necessario fare una scelta alimentare sostenibile per la Terra.


Il 24 settembre a Firenze i corpi che gremivano le piazze chiedevano proprio questo: giustizia climatica, una più equa distribuzione delle risorse, una sensibilizzazione sul tema alimentare, una presa di coscienza e anche un po’ di coraggio. Lo stesso coraggio che serve per scendere in strada e far sentire la propria voce dissidente.


È stata una festa con danze e musica ma anche un grido disperato di giovani che vedono il proprio futuro sommerso dagli oceani. Un futuro che rischia di non esserci se non ci sarà un’inversione di rotta da chi detiene i fili del potere.


La Terra brucia e il mare s'innalza.

La Terra e tutti i mari e gli oceani sono in pericolo, così anche noi, assieme a tutte le altre specie animali e vegetali di questa casa.

Ciò che di più impressionante c’è stato era la giovanissima età di ragazze e ragazzi scesi a chiedere aiuto, moltissime e moltissimi con gli zaini di scuola, cartelloni con il nome del proprio istituto.

Una voce collettiva, una voce unica che si alzava fino al cielo.

Il potere politico dello scendere in piazza e occupare fisicamente i luoghi pubblici è il mezzo più potente del popolo.



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